Lorenza Trucchi

per la mostra antologica di Palazzo Barberini Roma del dicembre '76 – gennaio 77

Alcuni anni fa in casa di amici nel corso di una serata un po' stanca, qualcuno propose un test psicologico composto di diverse domande. Alla domanda: "Cosa fai quando lavori?", Piero Sadun rispose: "Preparo la mia fine". Oggi, a rivedere in prospettiva queste opere che sintetizzano l'intero percorso della sua attività, possiamo affermare con sereno giudizio critico che Sadun ha degnamente preparato non solo la propria fine ma la propria posterità.
Era un pittore autentico sebbene altri interessi, pur sempre culturali ed organizzativi (e mi riferisco soprattutto al suo appassionato impegno di Direttore dell'Accademia di Belle Arti dell'Aquila) talvolta lo inducessero a trascurare quel suo primo e maggiore amore per la pittura. Ma alla pittura non cessò mai di credere ed alla pittura tornò ogni volta con una dedizione ed un fervore da neofito. Scriveva da Zurigo, in una lettera tremenda ed intrepida, dopo aver subìto l'operazione di laringectomia: "Non so ancora dirti niente di quanto i conflitti interni che ora mi dilaniano costruiranno o demoliranno. Ti dirò però che anche ora la vita mi sembra una cosa meravigliosa e quando, in certi momenti, la depressione mi invita ad abbandonarmi all'angoscia, reagisco con rabbia, con violenza, perché so che la mia salvezza dipende solo dal coraggio e dalla forza. La mia vita cambierà. Non so immaginarla: la devo inventare. So solo come non sarà. Non mi devo più assomigliare per non sentirmi mutilato e diverso. Ho tanta fantasia da sapere come sottrarmi a tutto quello che apparentemente sembra fisso, ineluttabile. Mentre quello che è fisso, ineluttabile sono solo le radici profonde dell'essere e la pittura; lo slancio di qualsiasi avventura spirituale non può sentirsi frenato da questa mutilazione, anzi può essere uno stimolo, crudele ma continuamente rivelatore. Così oggi mi pare di voler solo dipingere".
L'istinto artistico si manfestò in Sadun precocemente. Ancora ragazzo si esercitava copiando gli antichi maestri e approfondendone le tecniche come aveva appreso nello studio del pittore Giunti e nei corsi serali dell'Istituto d'Arte di Siena. Un inizio quasi artigianale che dà i suoi primi frutti nel 1938, allorché non potendo frequentare la terza liceo a causa delle leggi razziali (studierà privatamente conseguendo la maturità classica al liceo Piccolomini) si mette a disegnare ed a dipingere con maggiore foga e più liberamente. Il Paesaggio al tramonto (1938), di proprietà della mamma dell'artista, con cui inizia la mostra (mostra di Palazzo Barberini) è un esempio di questa pittura ancora acerba e, tuttavia, già sensibile alla luce in una interpretazione romantica della realtà. E la luce, ora più incarnata nel colore, fa ancora da protagonista nella Campagna senese del '41, quasi un primo ingenuo omaggio a Morandi. Anche negli affreschi per la Certosa di Pontignano e perfino nelle illustrazioni per Città dell'Uomo (1941) (il bel poemetto in prosa dell'amico Mario Verdone così desueto nel clima del tempo, con quella scrittura frantumata e l'affastellarsi delle immagini ombrose, spettrali) Sadun, pur irretito dall'insistente ricordo di Rosai, manifesta il proprio interesse luministico e la predilezione per il bianco: il suo colore più ricorrente ed amato cui contrapporrà, in seguito, il rosso, nota sempre violenta, tragica, più funerea nella sua pittura del nero tesso. Questo accenno al valore simbolico di radice vangoghiana ed espressionista che egli dà al colore, non mi pare fuori luogo né tantomeno letterario. Sino all'ultimo, anzi più che mai durante l'ultimo periodo, Sadun ha conferito al colore un carattere simbolico, precisato nelle minuziose note che costellano gli albums di disegni preparatori, nei quali alla pari progettava l'andatura compositiva, il ritmo strutturale e l'uso specifico degli strumenti in rapporto alla densità del pigmento. Non a caso i grandi dipinti monocromi del 1972/'74 hanno quasi sempre un titolo evocativo. "Il quadro", diceva, "deve essere la cosa senza la cosa": ossia la pittura, pur essendo il soggetto stesso, esprimeva, voleva esprimere e, quindi, comunicare, sentimenti, immagini, visioni. Questo colore-materia finirà dunque per essere il codice del suo estremo messaggio.
La pittura di Sadun prende precisa fisionomia intorno al 1944-'45. A mutare in fretta non solo l'uomo ma il pittore aveva contribuito la guerra, patita prima da rifugiato e poi vissuta, giorno dopo giorno, da partigiano nelle montagne dell'Aretino. Di quel periodo ci restano solo i quarantaquattro Disegni della Resistenza. Su di un piccolo taccuino tracciava quasi a liberarsene gli occhi, fissandoli per sempre sul piano profondo della coscienza, le immagini più violente e tragiche. È probabile che molti di questi schizzi costituiscano un libero documento della cosiddetta strage di Marzana: "Le condizioni in cui si viveva e si moriva", ha scritto, "erano così anormali, e gli ideali per cui si combatteva così grandi, che guardando indietro a quei giorni vediamo solo la luce o la notte, e il presente ci sembra quieto crepuscolo".
Cesare Brandi ha precisato che fin da quegli anni lontani il disegno di Sadun non somigliava a nessun altro: "Il tratto era sottile come quei fili di ragno che volteggiano nell'aria di autunno per le strade di campagna, troppo leggeri per posarsi, resistenti e invisibili". Sicché pur nella indubbia assonanza sia con Scipione sia con lo spiritato e dolente Mafai delle Fantasie, questi foglietti dal dettato così sismografico, conservano una loro precisa impronta.
Agli inizi del '45 si trasferisce definitivamente a Roma prendendo studio in via Panisperna e nel marzo allestisce allo Zodiaco la prima mostra assieme a Stradone e a Toti Scialoja. La presentazione al catalogo era fatta a tre mani: Moravia presentava Scialoja, Ercole Maselli Stradone, mentre lo stesso Scialoja introduceva Sadun.
Maselli parlava di "naturalismo demoniaco"; Moravia di "incipiente espressionismo" e Toti, in una illuminante pagina critica da antologia, "di una polpa torbida e fumosa alla Scipione e alla Soutine". Le storie dei tre artisti eran diverse, ancora breve ed incerta quella di Sadun, più affermate e mature quelle di Stradone e Scialoja, ma comune era il gusto per il colore sommesso e grondante e l'insistenza acre sulle immagini subito deformate, accartocciate dalle vampe di una febbre visionaria. Questa pittura davvero nata, come scrive Scialoja, "sotto il segno dell'Oltranza, costellazione amara e fervida", ci appare, sia pure indirettamente, non dissimile da quanto in quegli stessi anni si andava facendo oltr'Alpe: anche qui la materia si addensava, le figure si facevano grottesche, il segno si ammatassava o strappava. Era un lento riemergere, un primo moto di "offerta" dopo le comuni rovine della guerra. Il decadentismo dei tre pittori si configura dunque come il sintomo consapevole di una nuova situazione esistenziale che di lì a poco avrebbe dato all'arte una collocazione altra. "Essere buoni decadenti" – aveva affermato Scialoja in una memorabile conferenza alla Bussola, poi pubblicata su Mercurio – vuol dire essere buoni europei". E Piovene in un lungo articolo apparso sulla Nuova Europa, pur in sottile polemica con questa presa di posizione, doveva ammettere l'originalità dei tre artisti: "Questa pittura e specialmente quella di Stradone e di Sadun, appunto per la sua qualità oggettiva in parte sfugge agli strumenti di giudizio e di confronto. È una registrazione di trasalimenti intimi, una simbologia di oscuri eventi del sangue. Si direbbe che si rifiuti, per quanto può, di entrare nella pittura, per rimanere vita simboleggiata, e come vita si consumi nell'atto stesso di mostrarsi. V'è in essa qualche cosa di fisico, anzi di organico; l'uomo rappresenta il suo sangue, che può essere rosso cupo grumoso come in Sadun, sieroso decolorato come in Stradone". Questo sfuggire agli strumenti canonici di giudizio, questo stare all'hinc et nunc, immersi in tanta fisicità ed organicità, sono già i sintomi di quel diverso modo di fare arte che riceverà nel '52 una puntualizzazione critica da Michel Tapiè: "Il ne peut ètre d'art aujourd'hui, que stupiefante… Le problème ne consiste pas à remplacer un thème figuratif par une absence de thème, que l'on la nomme abstrait, non-figuratif, non-objectif, mais bien à faire une oevre, avec ou sans thème, devant laquelle, quelle que soit l'aggressivitè ou la banalitè e contact epidermique, on s'apercoit petit à petit que l'on perd pied, que l'on est appellé à entrer en extase ou en démence, parce qu l'un après l'autre, aucun des critères traditionelles n'est mis en cause, et que cependant une telle oevre porte en elle une proposition d'aventure..." (Un art autre).
Certo non voglio qui forzare la mano, storicizzare in chiave internazionale questo evento che è e resta molto romano, pur precisando tuttavia che Scipione non era un "epigono" come affermava Piovene, ma un caso europeo, e che non sarebbe possibile tracciare la lunga storia della materia tralasciando di accennare al primo Pirandello e, successivamente, a Stradone.
Due anni dopo (marzo 1947) i tre artisti, ai quali nel frattempo si era unito Ciarrocchi, espongono al Secolo introdotti da Cesare Brandi con un saggio che farà epoca: "Tutte le persone debitamente informate che quest'anno si porta il cubismo" – osserva Brandi con sottile humor nella sua difesa per assurdo – "dovranno sentirsi a disagio come ad una esplosione di modelli di dieci anni prima, troppo recenti per essere antichi e troppo visti per essere nuovi. Francamente questi pittori sono fuori strada e per di più possono parere presuntuosi. Per loro il cubismo ufficiale d'oggi non ha nulla a che fare con il cubismo autentico, quando fu lezione di forma e non gretto galateo di formalismi.... Per loro non c'è progressione dal gusto all'arte, ma dall'arte al gusto..... Si sovvengono perciò del Manierismo.... Si illudono storicamente che l'autenticità creativa di un'epoca non è data dall'uniforme, dallo standard, dalla fossilizzazione di uno stile, ma piuttosto dalla molteplicità dei motivi che giungono alla forma.... Il Romanticismo per loro può non essere ancora chiuso o estinto: e il Romanticismo non sarà chiuso ed estinto che quando veramente ogni uomo moderno si sentirà in situazione verso l'esistente in modo del tutto oppposto a quello romantico: cosa che se pur augurabile, è ben lungi dal realizzarsi... Il loro vero è in prima istanza interiorizzato e commosso, sottratto all'attimo fuggente e riassorbito nell'attimo vitale è necessario all'artista in cui diviene simbolo e sigla di una realtà diversa da raggiungere... Oggi, nel tramonto dell'Europa, quando ognuno che pensi per forza incappa nel problema dell'esistenza, così come viene posto dall'Esistenzialismo, se una costante del pensiero si può indicare è proprio nell'assurdità in cui viene precipitata la vita dell'uomo.... Che di questo mondo convulso e martoriato, senza fede e pronto a riconoscersi nell'assurdo, possono solo dirsi interpreti autentici i ferventi di un ordine, sia sociale o formale, sarebbe perlomeno azzardato affacciarlo. Che poi" – prosegue Brandi – "proprio in questo mondo solo perché in cerca di un ordine e di una anche precaria stabilità, si esiga dal pittore che continui a combinare speciosamente come in un caleidoscopio il cubismo-surrealista dell'ultimo Picasso, con i colori di Matisse ridotti a vetrofania, nell'esaurimento dell'ennesima formula decorativa, questo è perlomeno sorprendente. Per noi che non chiediamo nessuna puntuale corrispondenza fra l'artista e il proprio tempo, la cosa potrebbe anche passare, ma neppure siamo pronti a capovolgere l'accusa, se crediamo di ravvisare all'origine prima di una pittura lo stesso ritmo convulso e disperato che accompagna il corso della nostra giornata, di ben altro Ulixes, ahimé di un Ulixes che nessun poeta finora ci ha dato. Continueremo tuttavia a chiedere a questo pittore che quel ritmo convulso si plachi, e che la sua umanità ulcerata raggiunga la clausola della forma.
E se allora vedremo, come per questi quattro pittori, che non si credono affatto dispensat dal sostegno interno di una tradizione formale, per personale e singolare che sia, e che a questa clausola della forma essi tendono con una lucidità che talora è perfino di remora al fastigio ultimo, noi non avremo nessuna ragion di espungerli dalla nostra cultura attuale e dal nostro tempo".
La presentazione dovette suonare per molti come una provocazione. E tale era anche la posizione "fuori strada" dei quattro artisti; d'altra parte il clima non appariva propizio agli exploits esistenziali. La mostra di Ciarrocchi Sadun Scialoja Stradone al Secolo veniva dopo quella di Guttuso, Corpora, Turcato e Monachesi, i cosiddetti neocubisti. Né dimentichiamo che in quegli stessi giorni veniva pubblicato a Roma il Manifesto di Forma 1, firmato da Accardi, Attardi, Consagra, D'Orazio, Guerrini, Perilli, San Filippo, Turcato, mentre a Milano si era appena chiusa la prima Rassegna Internazionale d'Arte Coincreta all'ex Palazzo Reale. Già era nato il "Fronte Nuovo delle Arti", dove forzosamente convivevano artisti nonfigurativi e realisti che di lì a poco allestiranno la loro prima collettiva alla Galleria La Spiga: Birolli presentato da Argan, Corpora da Guttuso, Guttuso da Venturi, Morlotti da De Micheli, Fazzini da Lucchese, Santomaso da Valsecchi, Turcato e Franchina da Maltese, Leoncillo da Moravia, Viani da Bettini, Vedova e Pizzinato da Marchiori che scriverà anche l'introduzione all'esposizione. Malgrado questa atmosfera, la mostra dei quattro artisti suscitò un vivo interesse.
Non mancarono certo le riserve, sia pure caute e criticamente ben motivate come quelle espresse da Emilio Villa (Alfabeto, febbraio '47): "Temo ma posso ampiamente sbagliarmi che i quattro neoespressionisti siano proprio fuori strada e fuori di pittura: perché il loro raffigurare fa leva su una ipotesi che non ha fondamento se non nella perizia della letteratura e delle poetiche..... Credo che dei quattro il migliore sia da considerare Stradone; il più vivo, Sadun, costituisce una rivelazione abbastanza acuta da seguire ancora...". Una sola stroncatura, quella di Achille Perilli su Forma 1 che va ben oltre lo spirito formalista e marxista del suo gruppo. Tra le opere memorabili di Sadun esposte al Secolo, sono i tre ritratti di Don Luigi che pur nell'ombra maggiore di Soutine e di Scipione segnano, come ben osserva Brandi, "il culmine della sua attività prima".
Il secondo lungo periodo della pittura di Sadun, ricco di molti esiti felici, ma, anche, di qualche momento più debole e ripetitivo, durerrà per circa un decennio. Sadun, che era stato un precoce e fervente assertore della materia afferrandone tra i primi tutta la causalità espressiva, attua invece alle soglie degli anni Cinquanta un recupero della forma di cui sono veicolo la luce e il tono. Una volta ancora, e non sarà l'ultima, egli conferma dunque la sua posizione di outsider, ritraendosi dall'alta marea dell'informale e lottando non solo contro corrente, ma contro il proprio istinto romantico ed espressionista.
Nel 1950 parte per Parigi con una borsa di studio del governo francese. Mi ha raccontato Antonio Scordia, anch'egli borsista a Parigi, che pur visitando avidamente musei e gallerie ed essendo quindi tempestivamente informato di quanto più nuovo accadeva allora, una volta rientrato nel loro studio comune, Piero disegnava "cose molto lontane da quanto aveva visto. Aveva un forte interesse per la metafisica", precisa Scordia, "e spesso i suoi disegni erano dei veri d'après delle figure dei manichini di De Chirico". Ed Ombre e figure si intitolano le tre opere che invia quello stesso anno alla XXV Biennale e che rispecchiano appunto questo rapido ma determinante transito verso la forma. Ma della metafisica a Sadun non interessava la poetica: attaccato sangue e cervello alla realtà, alla vita, non avrebbe mai potuto essere quella onirica e surreale la sua vera strada. L'incontro con De Chirico si risolve perciò in una intensa ma breve meditazione sul rapporto dell'immagine con lo spazio. I suoi congeniali interlocutori sono altri e ne darà pubblica conferma nella autopresentazione alla personale che terrà alla Galleria il Pincio nel maggio del '53: "Se a qualcosa vorrei dare ragione sarebbe alla presenza di una cultura, che per me non appartiene già al passato: la cultura figurativa che ha come fuochi Braque e Morandi. Mi fa piacere di scriverlo perché mi fa piacere di muovermi nella luce che soprattutto da questi due emana, e perché se anche appaia manifesto, deve essere manifesto che non faccio finta di non accorgermene. Poi, magari, sarà tutto sbagliato, è la mia strada come riflessa in uno specchio senza fondo. Quand'anche fosse così non me ne vergognerò. Sarebbe molto più facile seguire una strada più facile visto che la pittura è ormai arrivata ad un punto dove non c'è più conti da rendere a nessuno. Non si sa se si tende all'oggetto o all'immagine. Per me non ci può essere che l'immagine e non c'è immagine che non significhi qualche cosa: ma questo qualche cosa se è stato un caso personale dell'artista non deve rimanere un suo fatto personale. La forma naturalmente. E questa si ritrova, si scopre in un continuo ritorno" .
Se ho riportato quasi integralmente le franche dichiarazioni di Sadun è perché mi paiono determinanti per capire non solo la produzione del 1952-'53 ma il lavoro successivo ma almeno sino all'inizio del '60. Nelle opere esposte al Pincio che si configurano come vere e proprie esercitazioni sul tema della Natura morta e del Gatto, la struttura rigorosa e vibrante appare quasi cristallografica per la forte incidenza della luce. Un anno dopo alla Tartaruga, dove lo introduce Leoncillo, l'aggancio con la realtà è più rarefatto, e mentre si accentua l'arduo tentativo di fondere la scomposizione cubista con il tonalismo, si evidenzia, alla pari, l'interesse per un immagine decantata, lirico simulacro dell'oggetto. Questa posizione si mantiene stabile anche nella produzione successiva, sia pure con qualche oscillazione verso il polo figurativo o, viceversa, verso quello astratto. Più legate allo spunto reale pur espresso in un teso dinamico gioco di linee-colore-luce, sono ad esempio, le opere ispirate al circo (presentate nel '55 alla Galleria La Medusa da Mario Verdone) ed altre più numerose che costituiscono una sorta di iterato omaggio a Morandi. Ma ecco che proprio da queste nature morte così raffinatamente morandiane si sviluppa e chiarisce sempre più l'interesse per lo spazio, divenuto poco alla volta un vero campo di avvenimenti. Giunge anche qui tempestiva e precisa l'analisi di Brandi (presentazione alla personale de Il Milione, 1958) che accanto a Morandi affianca ora il nome di Mondrian già anticipato, del resto, fin dal '56 in una recensione apparsa su Il punto: "Due poli apparentemente inconciliabili, naturalmente conciliati nella fantasia dell'artista..... il colore spazializzato di Morandi gli permette l'assenza totale di chiaroscuro come racconto inerente all'oggetto; il ritmo spaziale di Mondrian gli consente di avere una tela tutta ugualmente sensibilizzata". E proprio di questa ritmicità spaziale e di questo colore non più spazializzato ma fatto spazio stesso, si ricorderà Sadun nell'ultima sua produzione.
Ma non precorriamo i tempi: nei così detti spazi plastici del '58 e '59 questo rapporto tra il colore, lo spazio, il ritmo si fa ancora più stretto ed armonico; ora il pittore tende a delle vere suites cromatiche che mi sembra gli vengano di volta in volta suggerite dai più disparati incontri. Così alcuni quadri molto scuri intitolati Omaggio a Caravaggio potrebbero essere stati ispirati, alla lontana, dall'emozionante Decollazione del Battista di Malta, esposta a Roma nel '56-'57 nella rassegna del Seicento europeo, ed altre "invenzioni" tutte modulate in sottili variazioni di bianco, da Malevic, la cui memorabile retrospettiva alla Galleria d'Arte Moderna è del maggio 1959.
Non mancherà chi a questo punto osserverà che negli anni Cinquanta l'arte in Italia e fuori di Italia era percorsa da così grandiose esplosioni che questa pur civile e trepida fioritura formale e tonale di Sadun se non anacronistica era, comunque, un po' fuori tempo. Non lo nego a priori. Ho troppo amato e subìto (mi si perdoni l'immodestia) Burri, Capogrossi, Dubuffet, per contraddirmi, e peggio, per abbandonarmi ad una difesa di ufficio che Piero non vorrebbe, lui che era, e lo conferma ora da par suo Brandi, "un critico velocissimo e quasi infallibile della pittura altrui". Voglio piuttosto cercare di capire le ragioni di questa non partecipazione, meglio "non reazione" all'informale. La situazione italiana degli inizi degli anni Cinquanta è caratterizzata dalla scoperta e riscoperta del cubismo. Sadun, uscito dalla sua fase romantica ed espressionistica, nella quale aveva già in certo modo soddisfatto e neutralizzato la propria fame esistenziale di grido e di materia, arriva alla "stazione" cubista quando i più sono già ripartiti, smistati verso le loro diverse ed oppposte direzioni. Dice Leoncillo, presentando la mostra della Tartaruga: "Piero Sadun alle organizzatissime schiere dell'astrattismo e del neorealismo ha preferito l'assidua e solitaria elaborazione delle esperienze postimpressioniste e cubiste che sono, nell'apparente alessandrinismo dei loro problemi, l'ultimo sguardo dell'arte moderna alla realtà. Che egli abbia dedicato il suo estroso sensitivo talento a tanta fatica che non ha facili slogans in tasca, testimonia certo della sua rara moralità artistica e della sua coscienza storica". È evidente che Leoncillo parla anche per se stesso: un primo, indiretto esame di coscienza che mi pare anticipi quanto accoratamente scriverà nel marzo del '57, autopresentandosi ad una mostra alla Tartaruga: "Volevo avere un linguaggio plastico buono per tutti […] invece siamo tutti qui, dopo le tempeste che abbiamo corso, a rialmanaccare un discorso ancora da principio […] Per questo ora ho fatto foglie, cespugli e fiori, perché non mi è facile vedere le cose.... dopo ne farò altre meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali". La terza strada tra astratti e realisti, Leoncillo la troverà di lì a poco nella natura, meglio nel "neonaturalismo" di Arcangeli. Sadun avrebbe potuto trovarla nell'informale: nella materia che era la sua natura, il suo humus. Ma differì questo incontro e io credo per uno spirito di resistenza che lo spingeva a non "recare offesa alla Storia", ad una tradizione che allora un po' da tutti e alla svelta veniva accantonata e travolta. C'è del resto un altro caso in Europa (e con questo, è ovvio, non voglio qui avanzare confronti, bensì solo suggerire come molte apparenti illogicità concordino proprio a spiegare la perenne logicità storica dell'arte), quello di Nicolas de Stael, ritornato negli anni 1953-'55, dopo una precoce e folgorante stagione astratta, ad una figurazione più alleggerita di materia che a suo modo, segna un ritorno "su se stesso" ed un congiungersi nel nome della sintesi, alla maggiore tradizione europea: da Velasquez a Manet e a Matisse. Il terzo tempo della pittura di Sadun inizia nel 1960, l'anno che segna la sua svolta definitiva verso l'astratto. Primo esempio di questo nuovo corso sono i 20 dipinti esposti alla XXX Biennale e presentati da Vittorio Rubiu: "Sadun, ha ormai dimenticato gli oggetti irripetibili di Morandi e si affida al diario intimo di un colore e di uno spazio debitori soltanto di se stessi". La sala non era tra le più felici sebbene quella iterata insistenza sui bianchi, fin quasi al monocromo, fosse un segno indubbio di novità. Sadun ritrova con la propria vena espressionista, il gusto della materia e del gesto, sempre cosciente ma già più veemente e libero. Di lì a poco le sue stesure si ispessiscono ancora (abbiamo in questo periodo anche alcuni pochi quadri con dei pesanti collages di carta e stoffa), la foga del dipingere si fa parossistica, tutti i colori ma specialmente il rosso, il bianco, il bruno entrano in questo gran concerto in chiave espressionismo astratto. Emerge un nuovo bisogno di far grande, di provare sul fatto, con l'azione stessa del dipingere, il senso vivo, attivo, dello spazio continuamente esaltato e rotto da brevi zone, da piccoli ritagli di colore intenso e contrastante. "Spore, madrepore, cistidi sospese a mezz'aria nella estensione, nella modulazione incerta, alle porte appena del notturno biancore", come li definisce Emilio Villa, questi accesi e densi brandellli cromatici caratterizzano fino a metà degli anni Sessanta la pittura di Sadun che raggiunge qui i suoi esiti più compiuti e felici in due grandi quadri: Discorso ininterrotto e Discorso interrotto esposti alla Salita nel '63. E, tuttavia, dietro questa fiammata vitale già si avverte il bisogno di una meditazione, sia pure intellettualmente attiva. Che Sadun pensasse allora anche a Rothko si ebbe una riprova, e non del tutto positiva, in un gruppo di opere del '66-'67 esposte alla Medusa, di più rarefatti spessori e all'opposto, di una accentuata evidenziazione di poche immagini, per lo più grandi lune aureolate: "Anche quando una forma si allarga macroscopica", osserva Marisa Volpi, "si suppone dal bordo incerto, aggredito di luci, che il suo viaggio nell'infinito la nasconderà all'occhio rapidamente come accade agli esseri della vita cosmica". Sadun riprende a dipingere con regolarità nel 1972 dopo una lunga pausa protrattasi per quasi un quinquennio.
Sarà l'ultimo periodo, il più alto, compiuto, dove le sue due anime, espresse nella polarità della materia e della luce, degli istinti e della ragione, si congiungono e completano esaltandosi a vicenda senza mai prevaricare l'una sull'altra. Via via in queste opere, attraverso il controllo del gesto in una azione iterata e precipitata ma lucida e non fine a se stessa, la concentrazione della materia a sostanza duttile atta a realizzare ed esprimere ogni sorta di valori pittorici e la riduzione della texture a reticolo senza mai zone opache e sorde, quasi il tremito di una visione segreta ripercossa all'infinito, Sadun realizza una propria riforma dell'informale, non in senso polemico e negatorio ma nel senso di un irreversibile superamento attuato su basi molto razionali. E basta scorrere sui suoi taccuini per accorgersi di come questo ultimo lavoro sia stato a lungo preparato, come ogni quadro fosse prima progettato e poi quasi saggiato, anticipato sulle tele di piccole dimensioni che finirono così per lui ad essere delle tastiere dove esercitare la mano a ritmo della pennnellata e, alla pari, delle variatissime campionature di irridescenti tessiture cromatiche.
Sebbene del tutto astratte, queste opere, che linguisticamente si riallacciano al Discorso continuo del '64, sono fortemente evocative: intendono suggerire un preciso concetto pur senza illustrarlo. Dalle maglie sontuose, raffinate, modulatissime parte dunque verso lo spettatore un messaggio che va oltre la presssantema generica "volontà di offerta" tipica dell'informale.
Sembra quasi che questa pittura non voglia catturarci, sebbene la sua seduzione sia palese ma, piuttosto mettere in moto con il suo brulichio silenzioso, con il suo palpito inesausto e, tuttavia, discreto, ogni nostro meccanismo percettivo, stimolato in superficie dalla delicatezza straordinaria della pigmentazione e, quindi, subito deviato verso una sottile tensione psichica, da una sorta di inquieta drammaticità che sta dietro tanta dichiarata bellezza. Le componenti caratteristiche della pittura di Sadun, la luce e la materia sono presenti e inscindibili. Certo, per dirla con Ungaretti "tutta la luce vana fu bevuta" e quella, non più naturalistica ma solo mentale, che balugina o si accende fa ormai tutt'uno con la diffusa spazialità della materia.
Sono così proprio i piccoli grumi e le fitte, cariche virgolature ad imprimere alla luce quel "ritorno costante su se stessa" (come Lothe osservava per Seurat) che distrugge, polverizza ogni possibilità di immagine definita. Talché è ormai nel vortice incessante di questa luce-materia che il quadro trova alla fine il suo fulcro espressivo ed emotivo, non univoco né fisso ma moltiplicato e oscillante, tanto da costringere l'occhio ad un perenne vigile movimento sopra e dentro il recinto del pigmento.
Anche Sadun, come molti altri artisti, da Rothko a Olitski, realizza un muro di colore. Al contrario però di quel che accade con Rothko, dentro lo spazio energetico delle sue superfici non sprofondiamo fino ad annullarci in una stasi estatica: qui la stasi è dialettica, il riposo allarmato. Qualche cosa sta per accadere ma presto ci accorgiamo che l'attesa è già il fatto, che l'essere è nella tensione sotterranea ma incontenibile di queste texture di tutti i possibili bianchi, di tutti i possibili neri. In tempi tanto poveri persino sciagurati per la pittura queste opere rappresentano un raro, prezioso, civilissimo atto di fede.

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