Toti Scialoja

presentazione alla Galleria lo Zodiaco, Roma 1945

Attribuisco a mia singolare e meritata fortuna d'essere il primo sulla crosta terrestre a scrivere di Piero Sadun. E vorrei sfogarmi a raccontare la sua fuga per la Toscana, in bicicletta, travestito da prete, infelicissimo ebreo perseguitato, con la tonaca svolazzante di Charlot e attorno un crepuscolo viola accoratamente schagalliano. Vorrei parlare dei suoi terribili mesi di vita partigiana sulle montagne del Favalto. Ma tutto questo non l'ha ancora dipinto e non è quindi lecito parlarne. Allora dirò quanto per me sia felice l'apparizione di questo giovane che si arrampica subito sulle barricate della polemica contemporanea.
Ieri Vespignani, oggi Sadun ci ripropongono la libertà, la fedeltà, la tormentosa intellligenza di uomini e artisti del nostro tempo e testimoniano che contro le decrepite restaurazioni e recentissimi oscurantismi la pittura va avanti, dritta al cuore degli uomini.
Difatto, quel che subito ci persuade in questa pittura è che essa è nata sotto il segno dell'Oltranza; costellazione amara e fervida che splende sul capo dei migliori. Sadun ha questo coraggio; di partirsi direttamente dalla materia sfatta, emulsionata di Soutine. Da una simile esperienza, tanto consumata e prossima a incenerire, quale l'apporto, la novità di Sadun? Il cubismo si potrebbe definire una analisi intellettuale dello spazio, scomposto e ricomposto, in simultaneità di piani, secondo leggi ritmiche concettualmente formali. Operazione svolta con serenità e metodo, lustra di clarté e in questo senso soltanto (insieme all'intensa ed assaporatissima esperienza del tono e della plaga cromatica e luminosa) riconducibile alle ricerche dell'impressionismo. Il post impressionismo alla Duly riduce il palpito luminoso al frizzo, alla cellula atrofica della linearità; i trucioli lievi e vani non sono più gettati via, divengono essi stessi necessità espressiva, strumento. Ora di fronte ad alcuni quadri e frammenti di questa giovanissima pittura (il Sofà rosso, Gabriella, Interno col soldato) bisogna riconoscere che Sadun perviene, usando il frizzo e l'immediatezza duliane a modo di rapidissime forcipi, pinze emostatiche e altri lievi strumenti maligni, a inserire e sovrapporre uno su l'altro i piani, far slittare le superfici, sviscerare i volumi, recidere e legare i fluttuanti tendini dei contorni, secondo certo estro cubista.
E questo non su di una materia pacata e tonale ma appunto su di una polpa torbida e fumosa alla Scipino e alla Soutine. Si noti ad esempio, sulla massa verde corrosa dalla terra rossa del fondo e che stabilisce il piano della giacchina sfilacciata di Gabriella, il disegno della giacca stessa, di un verde più freddo che si stampa sghembo come le vene di una foglia d'edera staccate dal loro tessuto ed evase fuori dei contorni. Viene stabilito cioè un piano cromatico per la giacca e un piano lineare per il disegno che si sovrappongono con frenesia intrecciandosi e movendosi sgarbatamente a rovescio. Poiché tutto questo è oscillante, improvviso, non metodico e opera su di una materia putrefatta e germinante, è facile dire che lo stesso ardimento di tale posizione prospetta ambiguamente sviluppi e pericoli. A volte le scomposizioni neocubiste perdono la verità di "improvvisi", di soluzioni frenetiche che piovono sulla testa come cappi, e si raggelano in formule calcolate. Oppure vengono riassorbite dalla "macchia totale" e si fanno allora marginali e distratte. Talora le incisioni profonde non sono sempre felici interventi e si fanno vacue giravolte, tic del pennello, ruotare di forchetta del buongustaio. Così il cromatismo in certi momenti si muove torbido e rivela un'esperienza delibata non alla fonte ma sui velenosi surrogati delle riproduzioni. Ma è inutile, oltre che ingiusto, effiggere con apprensioni pedanti queste tele logore come vecchie bandiere al palo di partenza. Lasciamo Sadun fiutare l'aria e procedere sul filo di rasoio "decadente ed ebraico" (oh moncherino di Farinacci, oh monocolo di Ojetti) in una direzione che molto condividemmo e sentiamo nostra e dalla quale certe recenti tendenze della pittura romana, che proprio questa nostra mostra illumina, non sono del tutto estranee.
A me basta aver tentato chiarire questi primi validi e nuovissimi risultati, il baluginare di un mondo che si vale di una materia tragica e di una esperienzza lucida per accennare alle sua favole convulse traversate da volanti sofà rossi, da sospesi e stralunati tavolinetti madidi per le manate dei "medium". In stanze affogate come forni si disperano a lembi personaggi di un'infanzia drogata e demoniaca. L'aria che sconvolge i suoi eroi e li riduce a lische, a straziati spaventapasseri e manda a pezzi, mollemente, in un vortice blando i vasi bianchi e il granuloso ordito delle vesti fluttuanti come bandiere di naufragio, è aria di buona pittura; è il vento di molta giovane e feroce pittura italiana a cui fermamente crediamo e che respiriamo a pieni polmoni freddo per la tempesta imminente.

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